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Cavalleria Rusticana - Suor Angelica

Pubblicato il 07/12/2023
Pubblicato in: Produzione
Cavalleria Rusticana - Suor Angelica

Venerdì 8 dicembre ore 21.00 TURNO A

Domenica 10 dicembre ore 18.00 TURNO B

Cavalleria Rusticana

Suor Angelica

 

Coproduzione con il Conservatorio di Musica “Giuseppe Martucci” di Salerno

ORCHESTRA E CORO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA “GIUSEPPE MARTUCCI” DI SALERNO

Nuovo allestimento del Teatro Municipale “Giuseppe Verdi” di Salerno

 

  • Cavalleria Rusticana

Musica di Pietro Mascagni

Direttore d’Orchestra, Jacopo Sipari di Pescasseroli

Regia, Riccardo Canessa

Maestro del coro, Antonello Mercurio

Scene e costumi, Alfredo Troisi


Santuzza, Amarilli Nizza

Turiddu, Amadi Lagha

Mamma Lucia, Erica Zulikha Benato

Alfio, Alberto Mastromarino

Lola, Victoria Shereshevskaya

 

  • Suor Angelica

Musica di Giacomo Puccini

Direttore d’Orchestra, Jacopo Sipari di Pescasseroli

Regia, Riccardo Canessa

Maestro del coro, Antonello Mercurio

Scene e costumi, Alfredo Troisi


Suor Angelica, Amarilli Nizza

La Zia Principessa, Chiara Mogini

La Badessa, Victoria Shereshevskaya

La Suora Zelatrice, Myriam Tufano - Lucie Monjanel

La Maestra delle Novizie, Erica Zulikha Benato

Suor Genovieffa, Laura Fortino

Suor Osmina, Antonia Cuomo

Suor Dolcina, Azzurra Terrana

La Suora Infermiera, Daniela Magnotta

 

 

Cavalleria Rusticana

La frusta, il brindisi, il grido: la legge ineluttabile della fatalità

Di Olga Chieffi

“Come sorpresa “Fin de siécle” scoppiò la Cavalleria rusticana che sconvolse il cervello dei melomani italiani, tanto che quasi non si accorsero di Falstaff”. E’ Gian Francesco Malipiero che scrive  di quella partitura di Pietro Mascagni datata 1890, già vincitrice al concorso della Casa Sonzogno, che ebbe alla prima un successo addirittura travolgente, che lo stesso compositore ne rimase stupito, quasi incredulo. Avendo compiuto un’altra opera assai più ambiziosa, Guglielmo Ratcliff, non pensava di aver scritto un lavoro così riuscito in appena due mesi. Il libretto di Cavalleria rusticana nacque, infatti, dalla collaborazione tra Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, che dovettero trasporre le otto “scene popolari siciliane” di Verga nei tempi di un atto unico e il dramma pur avendo proporzioni “microscopiche” è – come osservò Amintore Galli– di una “potenza senza pari: ogni personaggio ha un suo proprio tipo e spiccatissimo, nell’azione nulla di stentato o di superfluo, tutto è logico, tutto è vero, tutto pieno di vita, l’interesse continuo e sommo”.

Nella storia del melodramma italiano Cavalleria rusticana segnò l’ingresso del Verismo, una tendenza di origine letteraria,  che fissò nel teatro musicale alcuni caratteri distinti, sulla scorta dell’ultimo operismo nazionale degli anni Settanta-Ottanta: passionalità estroversa, con infiammati sbocchi nel registro acuto; languore sentimentale, che inzuppa di melodie per gradi congiunti il vecchio recitativo, partecipazione stretta dell’armonia e del timbro strumentale alla coloritura e sottolineatura del discorso vocale; poca varietà nelle forme, che distinguevano l’opera italiana tradizionale; decisa propensione per soggetti in cui il colore locale, regionalistico, procuri storie violente, magari sordide e truci, di ceti sociali molto modesti. In Cavalleria, l’episodio d’amore e tradimento, con delitto d’onore, viene immerso in pagine corali, religiose e folcloriche, anche i soli attingono a riferimenti  canzonettistici e le romanze da salotto si adagiano sul popolare. Grandi meriti di Mascagni furono di salvare la freschezza dell’insieme, la cantabilità generosa e spontanea, senza allontanarsi dal dramma neppure nei momenti decorativi, e se questi ci sono, con valore autonomo, hanno l’autorità di fare spettacolo. Infatti, come in tutte le opere licenziate da scuole nazionali di fine secolo, la pittura di paesaggio, d’ambiente, è assai curata, sebbene non vi sia di necessità folclore autentico quanto, piuttosto, libere invenzioni e attribuzioni. In Cavalleria, si trovano spesso a confronto una certa elementare nudità armonica, non sempre elaborata, stesa, però, in accordi larghi e pieni, corrispondenti alla pressione passionale, e la quasi contrastante ricercatezza timbrica. Dopo l’efficace “Siciliana” interna di Turiddu, dedicata alla sua Lola, le donne cantano la natura che fiorisce, gli uomini inneggiano alle loro belle: due temi che si intrecciano con movimenti diversi e modi arcaici nelle melodie, temperati dallo scivolio cromatico – colori chiari, quasi ondeggiare di rami fioriti; sotto, però, gli oscuri pugni delle percussioni e dei bassi muovono il sangue, come subito dopo il tema che segnala l’arrivo di Santuzza. Il marito di Lola, Alfio, il carrettiere, sembra un tipo sicuro e felice, ma non nasconde l’umore variabile e feroce – la folla gli danza intorno quasi spagnoleggiando. Ogni nube viene allontanata da altro coro, della Resurrezione, una maestosa piramide a gradini che termina con apoteosi, corposa e trasparente. Il dramma si accorpa, invece intorno al racconto tripartito di Santuzza, dal viso scuro e lacrimoso, accostato alla dolcezza lieve di un’immagine sacra. Il suo colloquio con Turiddu è percorso come da vento marino, le parole scavano un terreno arido, vulcanico, dove la maledizione prende un significato eterno, che lo stornello di Lola, così molle e riposato, scatena come effetto di una condizione locale.

 

A sua volta Alfio prorompe sui ritmi che gli sono usuali, ma, ormai, fatti rabbiosi. L’orchestra ha un nuovo momento solistico con l’Intermezzo sinfonico, un Andante sostenuto che, ha la funzione di articolare, al pari della Preghiera. L’Intermezzo è costruito in due sezioni nettamente contrastanti tra loro anche per via della strumentazione: la prima sezione si basa sul quartetto degli archi, con un piccolo lamento affidato all’oboe; nella seconda, arpe e organo accompagnano una dolcissima melodia eseguita all’unisono dagli archi, senza il contrabbasso.

Altra deviazione dal fulcro del dramma, la scena del brindisi, che, comunque prepara gli attimi fatali. I piccoli fregi tintinnanti, la materia ingenua del canto, battono sulle parole, colano tra piccoli rigagnoli di vino; le raffiche corali sono colpi di lupara. “Rinnovisi la giostra”, ovvero si ripeta il giro dei bicchieri di vino. Il coro s’impossessa, qui, del materiale musicale del brindisi di Turiddu, amplificandolo: il modello verdiano del brindisi dell’Otello guidato da Jago, col medesimo carattere popolare, è ben presente in questa scena. Il clima festaiolo, prepara sapientemente l’atmosfera dell’epilogo, predisponendo gli animi dell’uditorio a una migliore percezione di quella “legge ineluttabile della fatalità” – come la definisce Lorenzo Bianconi – tipica, tra l’altro, del verismo musicale: la catastrofe finale.

I due rivali si sfidano con un dialogo compatto, dalla tragica dignità. Turiddu saluta la madre e si apre, finalmente, alla sincerità, con un volto che rivela per intero una individuazione sociale. Poi, quel grido, che taglia l’opera come una riga di sangue, un lampo imprigionato nella melodia: il segnale della tragedia appena compiuta è ancora una volta appannaggio dell’orchestra, con la perorazione, spiegata e forte del tema della vendetta di Santuzza: il motivo passa attraverso il taglio angolare della donna tradita, sulla quale si abbatte l’anatema della mala Pasqua che ha scagliato contro Turiddu. La chiusura è una coda sinfonica ricca di cromatismo, che evoca il duetto Santuzza-Alfio, sulla quale si chiude il sipario, e che condurrà all’enfasi dell’accordo finale di fa minore, la tonalità della “Siciliana”. L’azione ineluttabilmente tragica, permeata dalle opposizioni simboliche del sacro e del profano, e i sentimenti umani così descritti, con le contrapposizioni amore-passione e gelosia-vendetta, si ergono all’altezza di archetipi tragici e consegnano Cavalleria rusticana quale specchio per drammi successivi dove, insieme all’elemento sacro, non mancherà la celebrazione di amore e morte.

 

 

Suor Angelica: il quadro, la cornice

Di Olga Chieffi

 

Non occorrono commenti per spiegare con quanta esattezza Suor Angelica, datata 1918, corrisponda alla prassi moderna di alludere ad una realtà nefanda, mettendo sul tappeto, in sua vece, evasivi primitivismi e candori.

In Suor Angelica si rivelano le esasperazioni modali che scivolano verso le scale per toni interi, già sperimentate in Butterfly, con l’orchestrazione lucida, o trasparente come una vetrata, con una qualità arcaica come la poteva intendere Stravinsky, che rappresenta l’esasperazione della suora. Puccini lega assai bene e in maniera coerente la qualità fonica alla situazione dei personaggi, sino al confluire del dramma nel miracolo sfolgorante, senza timore di mettere a nudo una condizione psichica non certo reale, ma estatica, ovvero tutto quello che può fare una povera madre in un claustrofobico convento. In Suor Angelica l’ esercizio stilistico e l’angolazione sperimentale muovono da una scelta  e da una tinta senza precedenti nel melodramma, una sfida, degna di quelle raveliane, all’idea data di teatro musicale: un lavoro tutto al femminile, fra soprani (la protagonista e le sorelle più giovani), mezzosoprani (in genere le suore che incarnano l’autorità) e – lo scarto timbrico e vocale più netto – un contralto, la crudele Zia Principessa, cartone preparatorio di Turandot, diciotto personaggi, tutti importanti. Ulteriore presa di distanza dalla tradizione è il modo di sceneggiare la vicenda in sette episodi, pannelli o stazioni, come una via Crucis. Siamo a fine Seicento in un monastero con il canonico agglomerato di chiesetta, chiostro, orto, fontana e cimitero. Una giovane suora, che era stata costretta ai voti dopo un amore colpevole, si avvelena una volta appreso che il figlio, nato da quella relazione, è morto. Sentendosi dannata, implora il perdono della Madonna e, negli ultimi istanti, come per miracolo, vede la Vergine venirle incontro e porgerle il figlio che aveva visto e baciato una volta soltanto.

Alla vicenda di Suor Angelica, tragedia, suicidio e miracolo, Puccini riserva soltanto tre (gli ultimi, La Zia Principessa, La grazia e Il miracolo) delle sette stazioni, mentre dalla breve, ma fondante e calcolatissima apertura strumentale-vocale “La preghiera” – in realtà in tutta l’opera viene usato il bilancino del farmacista – a Le punizioni, La ricreazione e Il ritorno dalla cerca, quanto domina sono lo sfondo e l’ambiente, la cornice rispetto al quadro, gli schizzi e gli acquerelli riservati alle religiose e Suor Angelica. Sono i piccoli-grandi accadimenti, le bugie dette o sottaciute, gli stupori e le malinconie improvvise, gli struggimenti, le rinunce e

 

le attese silenziose, mentre si prende graduatamente coscienza del lento fluire del tempo, la caratteristica di questa opera. Cosa che, in termini di drammaturgia musicale avviene recuperando antichi parametri di narrativa popolaresca, attraverso i quali filtra un’inquieta poesia della memoria di taglio squisitamente decadentista. La preghiera è una pagina fondante: è una remota melodia a suscitare dal nulla un microcosmo fuori dal mondo, un debussiano monastero di Allemande, ad evocare le suore che cantano in chiesa l’Ave Maria. E’ un’antica e semplice filastrocca che il coro farà sua, enunciata dalle campane, che s’immedesima nel suono stesso di esse che risuonano all’interno. Ogni pannello ha una fisionomia data, anche se risulta perfettamente concatenato con gli altri: La punizione delle monache inadempienti fa il paio con la punizione più grande inflitta ad Angelica, la nostalgia di Suor Genovieffa del suo agnellino si rispecchia nel desiderio struggente del proprio figlio, il tutto con incremento graduale di emotività. Una posizione ricavata dai fiori allevia il dolore fisico di Suor Chiara e un’altra posizione sana le pene dell’animo di Angelica. La visione affascinante della fontana illuminata dal solo al tramonto, percepita come evento miracoloso dalle ingenue monachelle, anticipa la visione sfolgorante del vero miracolo, il tutto disposto e assecondato da un libretto di assoluta, puntualissima squisitezza. Ed ecco la Zia Principessa, una sorta di Scarpia al femminile, col suo sadismo bigotto, preannuncio della Principessa di gelo, Turandot. Nel duetto con la nipote, la Zia Principessa s’immedesima vocalmente in un rigido declamato e in un canto scolpito disegno musicale reso inquietante dai cromatismi, attraverso cui si constata dolorosamente che “Sett’anni son passati” da quando è entrata in clausura. Orchestra cupa, analogie con Madama Butterfly dal momento in cui la presenza  della moglie americana di Pinkerton diventa palpabile e canto inflessibile sottolineano l’algida presa di distanza sentimentale e la burocratica richiesta, la firma di Angelica su un documento che ripartisce il patrimonio di famiglia. La brutale rivelazione della morte del bimbo le toglie l’ultimo appiglio e il suicidio viene, dopo il grande assolo “Senza mamma”, vertice fra i più toccanti dell’arte di Puccini, come diretta conseguenza della contrazione dei tempi drammatici. L’orchestra, dalle iniziali trasparenze, si fa planctus preludiante, figurante poi come trenodia su armonie modali, indi melodia dolce e consolatoria, che ascende in tonalità maggiore “Ora che sei un angelo del cielo”(un chiaro prestito da Madama Butterfly una pagina nascosta fra il duetto dei fiori e la veglia notturna là dove Cio-cio-san chiede dolcemente a Suzuki “un tocco di carminio”) e coda “Dillo alla mamma”. Quanto al finale, col suo miracolo, un vero e proprio complesso speciale aggiunge al finale sonorità arcane e luminose, una risposta beatificatrice alla disperazione di Angelica. L’orchestra si muove in punta di piedi entro un dramma fatto di sottili perfidie e di malinconia, sfoggiando una grande varietà di tenui impasti timbrici e dinamiche soffuse. Una citazione a parte merita il miracolo finale, dove le voci del coro misto sono sostenute da una tavolozza timbrica fredda e brillante: arpa, due pianoforti, fanfara di tre trombe, leggeri colpi dei piatti, rintocchi delle campane. Un timbro che è già luce di per sé, ma che intensifica anche l’effetto del fascio luminoso che proviene dalla chiesetta. Puccini interpreta l’evento come un’abbagliante visione della morente, senza alcun fine edificante, suggello perfetto per un’opera intensamente poetica, che non manca mai di commuovere.

 

Conversazione con RICCARDO CANESSA

di Claudia Cianciulli

 

Profondo conoscitore della macchina teatrale, regista attento, accurato e meticoloso mette nei suoi allestimenti tutta la passione e l’entusiasmo che lo contraddistinguono. Ho incontrato Riccardo Canessa alla vigilia del secondo appuntamento che porterà la sua firma, dopo il clamoroso successo di Vedova Allegra, Cavalleria Rusticana- suor Angelica.

 

Maestro si confronta con un dittico poco usuale che mette insieme due capolavori che segnarono una nuova epoca per il melodramma. Cosa l’affascina maggiormente delle due opere?

Sono due lavori che amo molto, due opere che portano in scena spaccati di vita tragica, sono due racconti struggenti e potentissimi. Da un lato con Cavalleria abbiamo un’espressività portata all’eccesso, basata su sentimenti elementari ma violenti, una storia di tragedie di e amori che si consumano tra tradimento e omicidio, dall’altro con Suor Angelica assistiamo alla narrazione di un’opera molto spirituale: una dolorosa storia di fede costretta che termina con una reale redenzione.

Musicalmente assistiamo all’esasperazione del romanticismo e alla conseguente innovazione che, in ambito drammaturgico, prevede tinte più cupe e fosche, e dà vita a intrecci torbidi di temi drammatici che si snodano su nuove configurazione drammaturgiche che puntano alla forte suggestione delle melodie cantabili.

 

Quella di Suor Angelica è sicuramente una storia più elaborata e complessa e ha un valore drammaturgico più intimo. Non crede?

Sì, musicalmente è una delle opere più complesse e moderne di Puccini. Nulla è lasciato al caso. Se si legge la partitura, è impressionante il lavoro meticoloso che è stato realizzato. La narrazione musicale è certosina: ci sono momenti ipnotici, epici, contemplativi, un intreccio indissolubile con la struttura drammaturgica dell’opera che narra del mondo di Angelica, una giovane donna, che sceglie di vivere l’amore, di essere padrona del suo corpo e dei suoi desideri. Naturalmente questo diventa per lei motivo di condanna. La sua famiglia, figlia del tempo e degli stereotipi culturali, la separa da suo figlio e la chiude fra le invalicabili mura di un convento.

 

Possiamo dire che Suor Angelica è la più verista della opere di Puccini?

Sì, ma è doveroso fare una premessa: il punto di partenza è che l’immensa arte musicale di Giacomo

 

 

Puccini lo tiene molto distante da quelli che sono gli altri compositori coevi che introdussero la cosiddetta opera verista e che facevano tutti parte della Giovane scuola napoletana che faceva riferimento al conservatorio di San Pietro a Majella. Stiamo parlando di Mascagni, di Leoncavallo, di Cilea, di Alfano e di Giordano. C’è una distanza musicale che non potrà essere colmata ma è sicuramente l’opera più squisitamente verista, tratta dal fatto vero, che il compositore abbia mai scritto. Anche perché poté “immergersi” completamente nelle atmosfere di reclusione del convento di Vicopelago, dove la sorella di Puccini, Iginia, aveva raggiunto la posizione di Madre Superiora. Una dispensa speciale fu concessa a suo fratello per avere accesso al convento, in modo da assorbirne l’atmosfera: si dice che abbia suonato brani della sua «opera claustrale» alle monache, che furono profondamente commosse da quello che udirono.

 

Suor Angelica è la storia di una donna tra le donne.

Quale opera di un atto per sole voci femminili, è certamente una novità. C’è una certa somiglianza anche con il Mese Mariano di Giordano (1910) che tratta pure di un bambino nato fuori dal matrimonio e poi morto. Le due opere condividono un’ambientazione religiosa; ma se in quella di Giordano il mondo secolare si intromette, Suor Angelica è sempre racchiusa nell’atmosfera del convento, e il finale è assolutamente diverso in quanto Suor Angelica riesce a ricongiungersi con il suo piccolo, sebbene in punto di morte.

Suor Angelica è circondata dal caleidoscopico mondo del convento declinato, ovviamente, al femminile, e Puccini riesce a conferire a ciascuno dei personaggi in scena, il proprio corredo psicologico che si interseca e si inserisce nella trama delle vite delle consorelle in un equilibrio narrativo e drammaturgico perfetto.

Il personaggio della  Zia Principessa è una figura unica nella galleria di personaggi femminili di Puccini.  E la musica segna, a tratti nitidi e a pennellate decise, un animo austero e un cuore di pietra.

 

Cavalleria rusticana è un’opera più epica, nella quale Mascagni porta in scena per la prima volta uno spaccato di vita drammaticamente violento.

Sì, Cavalleria rusticana offre un ritratto nitido di un’epoca, l’affresco di una Sicilia quasi cinematografica che la partitura evocava ad ogni momento. Un intreccio torbido di temi drammatici che si snodano su una nuova configurazione drammaturgica che punta alla forte suggestione delle melodie cantabili. Con Cavalleria ci troviamo di fronte ad un capolavoro la cui caratteristica è la localizzazione geografica: è una storia che può avere come scenario unico la Sicilia. Infatti nell’omonima novella di Verga, da cui fu tratto il libretto, agiscono personaggi profondamente calati nell’ambiente siciliano, intriso di comportamenti atavici, il loro margine di iniziativa è pressoché nullo e riflette la convinzione che l’ambiente influisca deterministicamente sulla psicologia individuale. Nell’opera di Mascagni i ruoli drammatici sono perciò rigidi e corrispondono a veri e propri stereotipi; ciò comporta una drammaturgia semplificata, caratterizzata da violenza gestuale e passionalità spinta.

 

PROGETTO EDUCATIONAL

Sempre e per Sempre

Lunedì 11 dicembre ore 11.00

Martedì 12 dicembre ore 11.00

Mercoledì 13 dicembre ore 11.00

Giovedì 14 dicembre ore 11.00

 

CAVALLERIA RUSTICANA

Musica di Pietro Mascagni

 

Direttore d’Orchestra, Jacopo Sipari di Pescasseroli

Regia, Riccardo Canessa

Maestro del Coro, Antonello Mercurio

Scene e Costumi, Alfredo Troisi

 

Santuzza Chiara Mogini

Turiddu Piero Giuliacci (11/13)

Alessio Borraggine (12/14)

Mamma Lucia Erica Zulikha Benato

Alfio Alberto Mastromarino

Lola Victoria Shereshevskaya

 

Coproduzione con il Conservatorio di Musica “Giuseppe Martucci” di Salerno

ORCHESTRA E CORO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA “GIUSEPPE MARTUCCI” DI SALERNO

Nuovo allestimento del Teatro Municipale “Giuseppe Verdi” di Salerno

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